Il ricordo più viscerale, intimo e bello è quello di Alessio, qui:
Andrea ha lasciato una scia di cose. Per dire: la sera in cui, dopo la prima comasca di Daredavil (quello da dimenticare, sì, quello con Ben Affleck), uscì dalla sala come mai l’avevo visto. Era incazzato sul serio. Era nero. Non per la regia infantile e viscida (puro fanservice) o per un Affleck di plastica, a disagio, fuori luogo, che già allora lasciava intendere che sarebbe stato più valido in altre cose. Nemmeno per il tentativo, tra i primi, di sparare il fumetto al Cine (ci riuscirono meglio altri, molti anni dopo). Quella sera Andrea era indignato profondamente – mi prese sotto braccio e me lo spiegò per una buona oretta fiorita di disapprovazione – per il colore tradito del costume. Avrebbe dovuto essere giallo o verde, o blu, o altro. Non so. Ma, certo, nel film “Caro mio, il costume era sbagliato, gravemente sbagliato. Non si fa. Però adesso ci facciamo un panino o due al 35“. E ce ne facemmo 10, credo.
Come molte cose che non ci sono più, c’era un bar in viale Lecco. Credo si chiamasse ‘900, oggi è ancora un locale ma un’altra storia. Avevo incrociato Andrea qualche volta negli anni, lo leggevo ma non lo conoscevo. Era il 2002, lavoravo da poco in Radio, non ero nemmeno praticante. Guardavo Andrea e pochi altri giornalisti come vacche sacre, pendevo (e, in realtà, pure oggi adoro i decani) dalle loro bocche. Facevo l’altalena felice su ogni fatterello regalato, raccontino suggerito, retroscena del mestiere. Che i giornalisti – quelli veri – mi regalassero tempo e storielle lo ritenevo un privilegio unico. Così è ancora. Credo vi fosse, in ogni storia raccontata, quel frappè – solo alcuni anni dopo avrei compreso – di mitologia, supercazzola, fantasia e pura cronaca che fa degli aneddoti qualcosa che valga la pena ascoltare, ripensare, portare dentro e poi (è prassi) spacciare per proprio.
Così avvicinai andrea al ‘900, una sera. Ovviamente grazie a Alessio (che conoscevo dai tempi del Volta): era un periodo in cui bevevano solo caffè e acqua, entrambi. Ma tanti caffè e tanta acqua. Pensavo fosse una pratica mistica di qualche tipo settario, massone, esclusivo come le Giovani Marmotte: ero già pronto a diventare discepolo silenzioso e venerante e servile, ero pronto a vivere a acqua e caffé. Non era così, era solo una fase, una delle molte.
Lavoravo in Radio. StudioVivo-CiaoComo era stata la prima in città a intuire la potenza della Internet: nel 2002, in Italia, era una cosa forte, quasi unica. Si sgobbava tra microfono e desk. Quella sera ero stanco. Ma mi invitarono al tavolo. Erano due eroi: non potevo dire no. Così Andrea mi chiese un poco di tutto, poi mi raccontò delle serate di chiusura al giornale, dei giri di nera a tarda notte, mi parlò delle dita di Petrucciani e delle labbra di Coltrane, dei disegni di Jack Kirby e Steve Ditko (conoscevo tutti per fortuna, figuraccia evitata o quasi).
Tra una cosa e l’altra disse: “Ti vedo a pezzi”.
“Sai, è come in Roger Rabbit: Dumbo lavora per un pugno di noccioline”. Parlavo di risultati, non di soldi.
Manona sulla spalla, manona piena, affettuosa, sincera: “Dai, Dj Dumbo, questo è il mestiere. Beviti un caffé, stai qui e stai bene. Panino?”.
Andrea è morto l’altra notte in ospedale a Como. Non stava bene e era ricoverato da qualche tempo. Andrea aveva 58 anni, era un grande giornalista, scriveva per La Provincia. Nato Roma, era caduto – non mi viene immagine migliore – dentro Como verso la fine degli anni ’80, prima aveva lavorato al Gazzettino per l’edizione di Verona. Andrea amava i fumetti, la musica e soprattutto il jazz.
In definitiva, poche righe non fanno una vita. Voglio dire che i suoi pezzi (che le cose belle, quelle che invidio per talento che mai avrò, me le sono sempre mangiate) mi hanno insegnato il mestiere più di tante pippe da bar.
Ma bar diversi dal ‘900.
Buon caffè, buon panino, Billy