“Un’imprenditoria che non si limita a subire la ‘ndrangheta, ma si pone in affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone, seppure solo momentaneamente, vantaggi”.
Le oltre 300 pagine delle motivazioni della sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Como del 27 aprile scorso per il processo nato dall’indagine “Cavalli di razza” restituiscono una nuova chiave di lettura per spiegare il radicamento della ‘ndrangheta in Lombardia.
La Corte, presieduta da Valeria Costi, ha pronunciato una sentenza con otto condanne e tre assoluzioni. Pene complessive per quasi un secolo per le presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Comasco. I magistrati dell’antimafia Pasquale Addesso e Sara Ombra avevano chiesto condanne complessive per 182 anni per tutti gli undici imputati. Per gli otto condannati, le pene vanno da un massimo di 16 anni e 10 mesi a un minimo di 5 anni. L’indagine nel filone con rito abbreviato aveva già portato a 34 condanne per un totale di oltre 200 anni. “Il superamento della logica dell’infiltrazione mafiosa a favore del vero e proprio radicamento della ‘ndrangheta in Lombardia – si legge nelle motivazioni della sentenza del tribunale di Como – è stato senz’altro determinato, o quantomeno agevolato, dal territorio fertile offerto dal mondo imprenditoriale, politico e professionale locale, resosi disponibile, talora piuttosto sprovvedutamente, talaltra con malaccorta avidità ad entrare in rapporti di reciproca convenienza con il sodalizio mafioso”.
“Sfatato – mette nero su bianco il Tribunale di Como – il falso mito della ‘ndrangheta che come un male serpeggiante si infiltra in un tessuto economico sano contaminandolo. La realtà restituita dal presente processo è quella di un’imprenditoria che si mette in affari con la criminalità organizzata”.
Nonostante quella che viene definita “pulsione opportunistica”, secondo il Tribunale di Como resta comunque “l’affetto di assoggettamento, di supina accondiscendenza a fronte dell’incalzare smodato delle pretese, di omertà che la forza intimidatoria esercitata dagli estorsori sortisce”. “La carica intimidatoria – si legge nelle motivazioni – è emersa dal tenore delle deposizioni dei testimoni”.