Un santo. L’espressione è risuonata decine di volte durante le udienze del processo per l’omicidio di don Roberto Malgesini, che si è concluso ieri con la sentenza della Corte d’Assise di Como e la condanna all’ergastolo di Ridha Mahmoudi, tunisino di 54 anni accusato di omicidio volontario premeditato.
Un santo. Lo hanno ripetuto, chiamati a testimoniare, i volontari che lavoravano con don Roberto, dagli operatori della Caritas alla religiosa che gestisce la mensa dei poveri a chi distribuiva con lui le colazioni. Lo hanno detto gli immigrati e le persone in difficoltà che il sacerdote aveva accolto e che aiutava quotidianamente. Lo hanno detto i consulenti ai quali il “prete degli ultimi” si rivolgeva per chiedere una visita, un consulto legale o per una pratica burocratica per chi aveva più bisogno, compreso proprio lo stesso Ridha Mahmoudi. Lo hanno detto gli avvocati, il legale che rappresenta la famiglia, Maurizio Passerini, ma anche Sonia Bova, difensore dell’imputato.
E durante l’ultima udienza del processo, quella della sentenza, è emerso chiaramente che “santo” potrebbe essere qualcosa di più di una parola usata spontaneamente e senza esitare da chiunque abbia conosciuto don Roberto Malgesini. Per avviare un processo di beatificazione, come previsto dal diritto canonico, devono essere trascorsi almeno cinque anni dalla morte di una persona. Ma è apparso chiaro che, in prospettiva, la Chiesa stia già facendo un ragionamento in questa direzione.
Il primo passo, in vista di un’ipotesi di questo tipo, è stata la richiesta della Diocesi di Como alla Corte d’Assise di poter avere, “per motivi religiosi”, gli abiti indossati da don Roberto il giorno in cui è stato ucciso, la croce Tau che il sacerdote portava sempre al collo, la mascherina, le chiavi, il telefono, oltre ai vestiti dell’omicida. La croce è stata chiesta anche dalla mamma della vittima e questa domanda è stata accolta subito, con la restituzione immediata prevista nella sentenza. La Corte ha deciso poi di consegnare anche gli abiti e gli oggetti personali ai familiari di don Roberto, che potranno poi quindi valutare ora con la Diocesi come conservare questi materiali in vista di eventuali scelte future.
Intanto, gli atti del processo di primo grado hanno consegnato il ritratto di un santo simboleggiato da quel sorriso che neppure la morte ha spento. Le uniche parole fuori dal coro sono state quelle del tunisino condannato all’ergastolo. “Non chiedo scusa, era un peccatore” ha detto in aula Mahmoudi. La risposta è arrivata dai familiari di don Roberto attraverso la voce dell’avvocato Maurizio Passerini. “Non si preoccupi di chiedere scusa o di vergognarsi dei suoi sproloqui. Non c’è n’è bisogno. E’ già stato perdonato dalla sua vittima”.