Coltelli in mano, armi, droga e alcol, risse, malavita, un uso – o forse sarebbe meglio dire un abuso – pericoloso dei social, su cui sfoggiano le loro imprese come fossero trionfi da elogiare. E ancora, bullismo e violenza declinata in una molteplicità di sfumature. C’è chi parla di baby gang, chi di criminalità giovanile e oggi c’è anche chi preferisce etichettarli come “maranza”. Quel che è certo è che si tratta – prima di tutto – di una sfida sociale ed educativa che non può più passare in secondo piano.
Oggi procurarsi un’arma è più facile di quanto si possa immaginare, per non parlare delle sostanze stupefacenti e degli alcolici, venduti anche a basso costo. Il problema, però, è forse più profondo e radicato. Talvolta, forse, più intimo e insidioso. Nella banda, si sentono invincibili e protetti. Nel gruppo molti giovani vogliono sentirsi accettati, prima ancora che realizzati.
Ed è proprio quello che è andato in scena anche a Cantù. “Siamo quelli della baby gang. Noi comandiamo qui. Quando noi siamo in giro tu devi sparire”. Così dicevano quattro giovani, tre ventenni e un 22enne, che con minacce verbali e aggressioni fisiche rivendicavano il controllo su piazza Garibaldi, cuore della città, per mesi teatro di ripetuti episodi di violenza.
Il problema, però, va al di là dei confini provinciali e regionali. Lo confermerebbero proprio i dati del Ministero dell’Interno. Lesioni, risse, rapine e violenze: non c’è differenza, Nord e Sud uniti dal triste fenomeno di una microcriminalità che è sempre più giovanile. Sono bande piccole, formate generalmente da maschi. Piazze, stazioni e centri commerciali i luoghi in cui si ritrovano – e agiscono – più frequentemente. È un’onda che fa paura e, a volte, accanto ai giovani che provengono da contesti familiari fragili e disagiati c’è anche chi è in controtendenza. Ad approfondire il tema è lo psichiatra e psicoterapeuta Claudio Marcassoli.