(ANSA) – BOLOGNA, 20 NOV – Nella notte tra il 21 e il 22 novembre 1994 i suoi colleghi poliziotti arrestarono Roberto Savi, assistente in servizio alla centrale operativa della Questura di Bologna. Nei giorni seguenti, uno a uno, fa vennero bloccati gli altri componenti della banda della Uno Bianca, composta dagli altri due fratelli Savi e per cinque sesti da poliziotti. "Finì un incubo e se ne aprì un altro, emerse uno scenario pazzesco e iniziarono i processi che sono stati lunghissimi", ricorda 30 anni dopo Alberto Capolungo, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del gruppo criminale che in sette anni e mezzo uccise 23 persone e ne ferì 100. "Terrorizzarono Bologna, la Romagna e le Marche. La gente ha continuato ad aver paura, a non fidarsi più della polizia, si creò un clima disastroso. Il terrore, più che il lucro, è sembrato il loro obiettivo. Se dopo 30 anni dovessero uscire dal carcere, ci sono persone nell’associazione che hanno ancora paura. Ma questa paura non può esserci, ci vuole una reazione, una ribellione civile affinché cose del genere non succedano più". "La cattura – continua – fu tardiva. Diversi elementi e spunti di indagine potevano far finire molto prima questa vicenda. Oltre alle responsabilità dirette dei criminali ci sono quelle di chi non ha visto per tempo, non ha capito bene, i processi sbagliati. Cose che fanno ancora imbestialire. Per troppo tempo non si è visto, si è ignorato. Un sacco di gente sapeva, mogli, colleghi, complici che escono e non parlano lo stesso". (ANSA).