(di Franco Nicastro) (ANSA) – PALERMO, 26 SET – ANDREA APOLLONIO, A COSA SERVE IL RICORDO (SCIASCIA EDITORE, PP 132, EURO 12). Quando nel 1971 furono uccisi a Palermo il procuratore Pietro Scaglione e l’agente Antonio Lorusso le reazioni furono molto forti. Per la prima volta veniva eliminato un magistrato. Ma nell’intervento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat al plenum del Csm non venne pronunciata la parola mafia. Trovarono spazio solo lo "sdegno" e l’auspicio che i responsabili dell’"efferato delitto" fossero individuati. Bisognerà aspettare 50 anni perché a Scaglione venisse data da Sergio Mattarella la medaglia d’oro al valore civile. Quella di Scaglione fu la prima commemorazione di un magistrato pronunciata dal capo dello Stato. Ne seguirono tante altre per ricordare vittime dei poteri criminali oppure del terrorismo. Andrea Apollonio, pm in Sicilia, ha selezionato 14 di questi interventi, ora raccolti nel volume da lui curato per l’editore Salvatore Sciascia, "A cosa serve il ricordo", con prefazione di Giovanni Salvi e postfazione di Giovanni Bianconi. Il libro è un’operazione di memoria che ritorna e in qualche passaggio divide ma riesce a cogliere i drammi personali dei magistrati uccisi e anche il senso di quei delitti. La mafia sparava per fermare le indagini sul sistema di "coabitazione" tra la criminalità organizzata e il potere politico. E per questo le vittime erano soprattutto pubblici ministeri. Solo in un caso venne colpito un giudice, Antonino Saetta, che si apprestava a presidente in appello il maxiprocesso. E allora si comprese che le intimidazioni mafiose ora toccavano anche la magistratura giudicante. C’era stato un salto pericoloso. Il terrorismo caricava invece i suoi crimini di uno scopo eversivo: gli obiettivi, osserva Bianconi, erano infatti "simbolo di uno Stato da abbattere". Toccò a Sandro Pertini, il presidente partigiano, affrontare le due emergenze parallele – mafiosa e terroristica – e a pronunciare il più alto numero di discorsi commemorativi. Fu Pertini a doversi occupare, tra un funerale e una commemorazione, addirittura dell’uccisione del vice presidente del Csm, Vittorio Bachelet, con la quale si era "voluto colpire il vertice della magistratura, il vertice del pilastro fondamentale della democrazia". Era il 1980, l’anno in cui vennero uccisi anche tre magistrati in tre giorni. Fu Francesco Cossiga a fare i conti con l’agguato a un giudice "ragazzino", come era stato definito Rosario Livatino, ucciso con ferocia mentre in auto, e senza scorta, si recava in tribunale. Quella volta Cossiga fece un lungo discorso, a tratti tormentato, con il quale denunciava che parlamento, governo e partiti avevano lasciato ai magistrati la prima linea nella lotta alle mafie costringendoli così a "esorbitare dalle proprie funzioni". Quella di una magistratura protesa verso campi di intervento non propri era stata una delle "esternazioni" di Cossiga che avevano sollevato tante polemiche. Il confronto, e talvolta lo scontro, tra magistratura e politica è un elemento che segna vari passaggi dei 14 discorsi. Soprattutto quelli più recenti come l’intervento tormentato di Giovanni Spadolini, presidente del Senato e capo provvisorio dello Stato, al plenum del Csm riunito a Palermo due giorni dopo la strage di Capaci. Quella volta il Csm fece i conti in un clima incandescente con le ostilità e le delegittimazioni di cui erano stati destinatari Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e il pool antimafia. E anche questo viene dalla memoria rievocato nel libro sin dal titolo. (ANSA).