(ANSA) – BARI, 20 MAR – Il Tribunale di Bari ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria per tortura nei confronti di un detenuto: l’uomo, un 42enne con problemi psichiatrici, fu brutalmente picchiato dopo aver dato fuoco a un materasso nella sua cella del carcere di Bari la notte del 27 aprile 2022. I cinque agenti sono stati condannati a pene comprese tra i 3 anni e 4 mesi e i cinque anni di reclusione. Insieme ai cinque sono stati condannati altri sei imputati a pene (sospese) comprese tra gli 80 euro di multa e i 13 mesi di reclusione per i reati – contestati a vario titolo – di falso in atto pubblico, rifiuto d’atti d’ufficio, abuso d’ufficio e omessa denuncia. La pena più alta è stata inflitta all’agente Giacomo Delia, condannato a cinque anni. Pena di 4 anni e sei mesi per Raffaele Finestrone, di 3 anni e 6 mesi per Giovanni Spinelli, di 3 anni e 5 mesi per Antonio Rosati e di 3 anni e 4 mesi per Francesco Ventafridda. Condannato a 13 mesi il sovrintendente Vito Sante Orlando, a 11 mesi l’agente Michele De Lido, a 6 mesi Leonardo Ginefra e Francesco Valenziano. Due infermieri condannati a pagare una multa di 80 euro per omessa denuncia hanno ottenuto il beneficio della non menzione della condanna. Secondo l’accusa, furono sei gli agenti autori delle torture. Le violenze sarebbero iniziate lungo il percorso dalla cella all’infermeria, con il personale che sarebbe intervenuto "con violenze gravi e agendo con crudeltà" prima scaraventando l’uomo sul pavimento, poi colpendolo con calci e schiaffi sulla schiena, sul torace, sui fianchi e sul volto. Tra gli agenti coinvolti nel pestaggio anche il sovrintendente Domenico Coppi, già condannato a tre anni e sei mesi di reclusione in un processo che si è celebrato con rito abbreviato per tortura, rifiuto d’atti d’ufficio e falso. Sempre in abbreviato è già stato condannato (con pena sospesa) a un anno e due mesi, per omessa denuncia, il medico dell’infermeria Gianluca Palumbo. L’agente Roberto Macchia, che pure aveva scelto l’abbreviato, è stato assolto dall’accusa di rifiuto d’atti d’ufficio ‘perché il fatto non costituisce reato’. (ANSA).