Un caso è un episodio isolato. Due, possono essere una tragica coincidenza. Ma sei vittime in cinque anni – sei ragazzi annegati nel lago a Como – sono un problema drammatico.
Un problema che, come tale, ha bisogno di soluzioni. Non bastano, evidentemente, i cartelli – pur ben visibili – di divieto di balneazione.
La giovane età, a volte, porta a sottovalutare rischi i e pericoli. Tuffarsi in viale Geno è pericoloso anche per chi ha confidenza con l’acqua.
Perché il lago è sempre freddo, nelle correnti sotto la superfice, e tuffarsi significa rischiare uno shock termico. Perché il fondo è limaccioso, non aiuta in caso di difficoltà. Perché il Lago di Como non è il Mar Adriatico. I fondali s’inabissano a precipizio, a pochi centimetri dalla riva non si tocca più.
L’estate non è ancora iniziata. Sono già morti due ragazzi, e un terzo ha rischiato. Vedere gruppi di giovani fare bagni e tuffi in una zona pericolosa, e potenzialmente letale, fa rabbrividire.
Perciò diventa necessario un presidio fisso, costante. E’ la richiesta che arriva a gran voce anche dai comaschi, che commentano la tragedia dei giorni scorsi attraverso i social. Se non si può – come immaginiamo – ricorrere alle forze di polizia urbana, è opportuno istituire una figura di controllo. L’equivalente di guardaspiaggia, nonostante la zona non sia né una spiaggia, né un’area balneabile. Una figura che possa dissuadere i ragazzi dal rischiare la vita. O che, magari, possa chiamare tempestivamente i soccorsi in caso di problemi.
Servisse a salvare una sola vita in cent’anni, sarebbe un investimento azzeccato.